Sfatiamo qualche falso mito sui videogiocatori e vediamo come evolve questo fenomeno culturale.
I videogiochi sono roba da bambini. I videogiochi fanno male alla salute. Giocare al computer fa diventare asociali… Quante volte avrete sentito frasi di questo tipo o peggio? I videogiochi sono da sempre un prodotto culturale particolarmente demonizzato e additato periodicamente come la causa di alcuni mali che affliggono i bambini e gli adolescenti.
Oggi, però, disponiamo di dati e ricerche scientifiche, per cui possiamo rispondere a molti dubbi e sfatare i peggiori stereotipi sul gaming. In questo caso, i dati ci arrivano dall’associazione di categoria italiana (IIDEA) e da quella americana, e da uno studio condotto da Hearts & Science. Continua a leggere!
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I videogiochi generano violenza
Questo è probabilmente lo stereotipo più diffuso e più vecchio, ereditato direttamente dalla TV (in particolare da film e cartoni animati). Questa affermazione, come le altre che vedremo più avanti, non ha nessuna base scientifica e si basa sull’idea che un comportamento violento visto o attuato in un videogioco possa generarne uno simile nel “mondo reale”.
Gli studi più recenti suggeriscono invece che l’apprendimento per osservazione sia modificato dal contesto e che le persone possano esporsi a determinati contenuti senza imitarne i comportamenti nella propria vita. Di esperimenti scientifici ne sono stati fatti molti al riguardo e nessuno ha trovato una correlazione o una relazione di causalità diretta e rilevante tra videogiochi e violenza nella vita reale.
Inoltre, le menti più malleabili e impressionabili sono quelle dei bambini, e i titoli violenti sono contrassegnati come tali affinché i genitori possano controllare a cosa giocano i propri figli. Come un film bellico, un documentario sulla droga o un film erotico, ogni prodotto culturale è pensato per un certo pubblico e va inserito nel suo contesto: in questo caso dipende dagli adulti controllare chi può giocare a cosa.
Le due fasce di età con più giocatori sono quella dai 15 ai 24 anni (4 milioni di giocatori) e quella dai 45 ai 64 anni (3,8 milioni).
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I videogame sono solo per i bambini
Il discorso precedente ci porta direttamente a questo stereotipo, secondo cui i videogame (o forse il gioco in generale) sarebbero una cosa puerile, da relegare all’attività dei più piccoli. Indipendentemente dall’ideologia morale che può generare una visione di questo tipo, i dati odierni smentiscono che i videogiochi siano un fenomeno che coinvolge solo i bambini, anzi è vero il contrario.
Nonostante siano nati come forma di intrattenimento per i più piccoli, oggi le due fasce di età con più giocatori sono quella che va dai 15 ai 24 anni (4 milioni di giocatori) e quella che va dai 45 ai 64 anni (3,8 milioni). Insomma, giocare è anche e soprattutto una cosa da adulti, o quantomeno da adulti giovani.
Un’ulteriore conferma a questa tendenza la danno gli eSport. C’è chi il gaming lo prende sul serio, in modo competitivo, e ne fa addirittura una fonte di ingressi. Inoltre, esistono molti tipi di giochi diversi e alcuni di questi, come i videogiochi di ruolo, sono complicati e pensati per un pubblico adulto.
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Le donne non giocano ai videogame
Dall’età passiamo al genere. Un altro vecchio stereotipo è che alle donne non piacciano i videogiochi. Questa affermazione parte dal concetto patriarcale per cui le donne siano culturalmente diverse dagli uomini per motivi biologici, per cui sarebbero più portate per determinate attività piuttosto che altre, come cucinare o pulire.
Maschilismo a parte, i dati ci dicono che le donne sono il 43% dei giocatori, per cui possiamo concludere che alle donne piace giocare ai videogiochi e piace anche svilupparli: sempre più donne scelgono la carriera di programmatrice e sviluppatrice di videogiochi.
Ci sono invece delle differenze significative nelle motivazioni per cui le donne giocano rispetto agli uomini. In base a quanto riportato dai partecipanti al sondaggio di Hearts & Science, le donne giocano soprattutto per distrarsi e mettere alla prova le proprie abilità, mentre gli uomini più per condividere un’esperienza con altri.
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Quasi tutti giocano alla Playstation
Lo stereotipo per eccellenza è che il tipico videogiocatore sia un maschio adolescente che utilizza la Playstation per giocare a titoli di sport o azione come Fifa o Call of Duty. In realtà, questa è solo una piccola parte del pubblico dei videogame.
Di fatto, anche se la Playstation è ancora molto radicata nell’immaginario collettivo del gaming ed è la console più utilizzata, la piattaforma più diffusa in assoluto è lo smartphone. I dispositivi mobili hanno cambiato anche i videogiochi e non solo per quanto riguarda le tipologie, ma anche per il consumo e l’esperienza che se ne fa, ormai slegata dalle mura domestiche e da orari prestabiliti.
Le donne sono il 43% dei giocatori e la piattaforma più utilizzata è lo smartphone.
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I videogiochi creano dipendenza
La WHO ha recentemente riconosciuto il fenomeno del gaming disorder, incluso nell’11ª edizione dell’ICD, ovvero la classificazione internazionale delle malattie. Tuttavia, il fatto che esista una condizione patologica non significa che tutte le persone che usano i videogiochi la svilupperanno; sarebbe come dire che tutte le persone che bevono vino rischiano di diventarne dipendenti.
Inoltre, non bisogna confondere l’uso eccessivo con la dipendenza: soprattutto i più giovani tendono a fare lunghe sessioni di gioco, ma non significa che abbiano sviluppato una patologia al riguardo. Di fatto, la frequenza è solo una delle 6 caratteristiche che permettono di diagnosticare una dipendenza. È importante istruire i bambini e gli adolescenti a utilizzare la tecnologia in modo responsabile e questo vale anche per i videogame.
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I videogiochi creano isolamento
L’immagine più antica del gamer è molto legata a un altro stereotipo, quello dell’appassionato di computer, che veniva visto come una persona asociale, rinchiusa nella sua stanza e poco interessata alla “vita reale”. A questo proposito, possiamo fare alcune osservazioni.
Innanzitutto, come per la violenza, gli studi non hanno trovato una correlazione tra il consumo di videogiochi e lo sviluppo di una condotta asociale. Inoltre, i videogame sono un passatempo che può attirare anche quella fetta della popolazione che per sua natura è meno interessata alla vita in società o altre abitudini considerate “normali”, ma ciò non significa che tutti i gamer siano così né, soprattutto, che siano i videogiochi a renderli così.
Poi, i titoli più giocati al mondo sono multigiocatore, alcuni di questi costruiti in ampi universi virtuali in cui le persone si incontrano, stringono amicizie, creano gruppi e trascorrono tempo insieme. Il fatto che questo contatto non avvenga nel mondo fisico non significa che sia meno intenso o importante per chi lo vive. Inoltre, intorno ai videogiochi nascono grandi community di appassionati: chi frequenta i fandom (gruppi di fan online), chi segue gli streamer durante le sessioni di gioco, chi parla online su Discord… Insomma, contrariamente a questo stereotipo, i videogiochi contemporanei sembrano proprio favorire il contatto tra persone e si potrebbe ipotizzare che in alcuni casi aiutino i più timidi o chi per altre ragioni ha difficoltà a socializzare a conoscere persone con gusti simili ai loro e fare nuovi amici.
In conclusione, se analizziamo da vicino ognuno di questi stereotipi, siamo in grado di rispondere a quella che è forse la domanda più vecchia che molti si fanno: “i videogiochi fanno male?”. Basandoci sui dati raccolti dalla scienza: no, i videogiochi non fanno male. In alcuni casi e per alcune persone possono essere nocivi, così come l’utilizzo incontrollato di tante altre cose, dalla TV a Internet o al cibo, ma di per sé i videogame non pregiudicano la salute mentale o fisica delle persone.
Inoltre, ormai i videogiochi sono molto di più di un prodotto di intrattenimento: sono un canale di socializzazione, sono un mestiere, sono uno sport e per alcune persone sono una dimensione alternativa in cui dare libero sfogo all’immaginazione e alla creatività, un universo parallelo in cui a volte riescono a essere sé stessi più di quanto facciano nel mondo fisico.
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